Le presunzioni tributarie non costituiscono prova nel processo penale
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36915 depositata il 22 dicembre 2020 ha ribadito che le presunzioni tributarie possono costituire solamente elementi indiziari sui quali il giudice penale può formare il proprio libero convincimento, non potendo però costituire prova del fatto contestato: è dunque necessario, per una sentenza di condanna, che le stesse trovino riscontro anche in altri elementi probatori o altre presunzioni, purchè gravi, precise e concordanti. Si tratta di una pronuncia che conferma l’assoluta indipendenza del giudizio penale rispetto a quello tributario non solo in ordine alla configurabilità di una possibile condotta penalmente rilevante, ma, anche in ordine alla valenza degli elementi probatori raccolti in
-Il caso:
Al legale rappresentante di una Srl veniva contestato il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art.2 D.Lgs. 74/2000), poiché la società aveva contabilizzato un costo per una prestazione (fornitura per un catering ed altre prestazioni di assistenza non ben specificate) in realtà mai avvenuta; il relativo documento relativo documento contabile era stato emesso da un soggetto ritenuto una mera cartiera. Il Tribunale riteneva accertata la responsabilità penale dell’imputato, condannato a sei mesi di reclusione. La sentenza era confermata in appello, dove i giudici sostanzialmente si riportavano alla motivazione della pronuncia di primo grado. Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione denunciando in sostanza l’erroneità ed illogicità della decisione della Corte d’Appello; in ogni caso la difesa sosteneva che le prestazioni erano state realmente eseguite e quindi si poteva parlare solo di fatture soggettivamente inesistenti.
-Analisi sul “rapporto” tra processo tributario e processo penale: valenza reciproca delle prove in entrambi i giudizi
Uno dei cardini del processo tributario rapportato al processo penale è sicuramente costituito dal principio del “doppio binario” tra processo amministrativo tributario e processo penale. ù La tematica del rapporto tra processo tributario e processo penale ha radici lontane, risalenti alla Legge n. 4 del 1929 con la quale sono state delineate apposite figure di reati fiscali rientranti nell’orbita del diritto penale sostanziale e processuale. Di cd. “pregiudiziale tributaria” parla espressamente l’art. 21 comma 4 della L. 4/29 con riferimento limitato ai reati in materia di tributi diretti, statuendo che “Per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovraimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti la materia”.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs.74/2000 i rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario trovano compiuta disciplina nelle disposizioni enunciate negli artt. 20 e 25.
In particolare, mentre l’art. 20 vieta la sospensione del procedimento tributario in pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti, ovvero, i fatti dal cui accertamento dipende la definizione della vicenda tributaria, l’art. 25 dello stesso D.L. 74/2000 a sua volta, abrogando esplicitamente l’art. 12 della L. 516/82, ha eliminato il principio in base al quale la sentenza penale irrevocabile assumeva autorità di cosa giudicata nel processo tributario in relazione ai fatti materiali oggetto del giudizio penale, il che serve per escludere qualsiasi rapporto di pregiudizialità tra i due procedimenti (penale e tributario). A tal riguardo, il Ministero delle Finanze, nella propria Circolare 154/2000 ha previsto la possibilità che il giudicato penale faccia stato nel processo tributario nella sola ipotesi in cui la pronuncia del giudice penale non sia frutto dell’utilizzo di prove non ammesse nel processo tributario giusta previsione dell’art. 7 del D. Lgs. 546/92, il quale vieta la prova testimoniale ed esclude il giuramento dal novero delle prove ammissibili.
Al contempo, nel processo tributario assumono valenza probatoria le presunzioni, sia assolute, che relative non escluse quelle semplicissime; tutte assolutamente inidonee a sostenere la responsabilità penale dell’imputato, atteso che il principio di non colpevolezza enunciato dall’art. 27 della Costituzione vincola la pronuncia di una sentenza di condanna alla certezza della colpevolezza dell’imputato.
Un consolidato orientamento della Suprema Corte, tuttavia, pur non riconoscendo autorità di cosa giudicata alla sentenza penale, afferma che il giudice tributario, nell’esercizio dei propri poteri autonomi di valutazione ex art. 116 cod. proc. civ., è comunque legittimato a valutare il materiale probatorio proveniente dal procedimento penale ed acquisito agli atti, al fine di verificarne la rilevanza ai fini fiscali e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna”: sicché l’esistenza di un provvedimento penale favorevole al contribuente non impedisce al giudice tributario una valutazione dei fatti conforme alle tesi dell’amministrazione.
Anzi, è fatta salva la possibilità per il giudice tributario di procedere ad una autonoma valutazione secondo la regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale, anche qualora ritenga di fondare il proprio convincimento su tali elementi”.
“Il risultato raggiunto in sede penale non rappresenta un qualcosa di completamente avulso dal gravame tributario, poichè il giudice tributario può legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale, purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori”.
Proseguendo sul tema dei rapporti “paralleli” tra processo tributario e processo penale, una delle questioni che si è posta all’attenzione dell’interprete concerne l’eventuale applicabilità della regola della sospensione necessaria del processo tributario nel caso di contemporanea pendenza del procedimento penale avente ad oggetto gli stessi fatti: ciò, in ossequio al principio della cd. “pregiudiziale penale nel processo tributario” che troverebbe un corollario, secondo taluni nell’art. 295 cod. proc. civ. 6. In particolare, la previsione normativa appena richiamata, prevede la sospensione necessaria del processo qualora, dinanzi allo stesso o ad altro giudice, penda una controversia dalla quale dipenda la decisione della causa.
Nella giurisprudenza tributaria di legittimità l’ambito di applicazione della norma processuale civile viene circoscritto al solo spazio temporale della contemporanea pendenza di due giudizi in primo grado, senza che quello pregiudicante sia stato ancora deciso: la sospensione verrà meno quando nel processo sulla causa pregiudicante sia sopravvenuta la decisione di primo grado, non essendo all’occorrenza necessario che tale decisione passi in giudicato (Cass. S.U. 19.06.2012 n. 10027). Ne consegue che, “quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto, ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ.” Ritornando al processo tributario, l’art. 295 citato trova applicazione nei limiti di cui all’art. 1, comma 2 del D.Lgs 546/92, così come trova applicazione l’art. 39 del medesimo decreto legislativo che limita i casi di sospensione del giudizio all’eventualità che sia presentata una querela di falso o che debba essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone. Perché si possa parlare di sospensione necessaria del processo deve quindi verificarsi la sussistenza o meno di un giudizio pregiudiziale “dalla cui definizione dipende la decisione della causa”: si tratta quindi di un giudizio pregiudiziale non soltanto in senso logico-giuridico, ma anche di “necessarietà” che va individuata nella assoluta e imprescindibile rilevanza della causa pregiudiziale nel giudizio da sospendere, nel senso che dalla definizione del giudizio penale deve dipendere la decisione della causa tributaria.
Altra questione particolarmente interessante nel rapporto binomiale tra giudizio penale e giudizio tributario è sicuramente quello relativo all’efficacia della sentenza penale nel processo tributario.
Ed è proprio con riferimento a tale specifico assunto che rileva la questione riconducibile “ai criteri” di valutazione degli elementi probatori emersi in sede penale e alla loro utilizzabilità o meno nel procedimento tributario, anche se la pronuncia in commento della Corte di Cassazione (Sen. 3695 del 22/12/2020) ha ad oggetto una situazione processuale esattamente contraria; ossia, il non utilizzo degli elementi di prova raccolti nel processo tributario in ambito penale; o meglio l’utilizzabilità degli stessi solo come elementi indiziari da parte del giudice penale.
Per quello che riguarda la valutazione da parte del giudice tributario degli elementi probatori emersi in sede penale, rileva segnalare che il sistema dell’istruzione probatoria è differente nei due giudizi:
Nel processo tributario non sono ammessi in osservanza a quanto disposto dall’art.7, comma 4 del D.Lgs n. 546/1992, né il giuramento, né la prova testimoniale tipica; per di più, gli Uffici tributari possono legittimamente avvalersi in alcuni casi delle presunzioni, anche se non sono connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Diversamente, con riferimento al processo penale gli indizi dai quali si desume “l’esistenza di un fatto” devono essere gravi, precisi e concordanti (art. 192 comma cod. proc. pen.). Ne consegue la libertà di valutazione da parte del giudice tributario, non solo ovviamente delle prove acquisite nel procedimento tributario propriamente detto, ma la libertà dello stesso giudice tributario di fondare il proprio convincimento anche sulle prove acquisite nel giudizio penale anche in quelle casistiche nelle quali detto giudizio sia stato definito con una pronuncia non avente efficacia di “giudicato opponibile” in sede giurisdizionale diversa da quella penale: unica, indefettibile condizione, quella gravante sul giudice tributario di procedere ad una propria ed autonoma valutazione, secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale, i quali possono, quantomeno, costituire fonte legittima di prova presuntiva.
Ed a proposito della assoluta libertà di valutazione da parte del giudice tributario di fatti già oggetto di indagini in sede penale ed a riprova del potere-dovere del giudice tributario di compiere una valutazione autonoma, costituisce principio consolidato quello secondo il quale, una volta contestata da parte dell’Amministrazione finanziaria l’antieconomicità di una operazione posta in essere dal contribuente-imprenditore commerciale, in quanto fondata su contabilità complessivamente inattendibile, e quindi, contrastante con i criteri di ragionevolezza è onere del contribuente dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione, senza che il giudice tributario possa limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea (Cass. Sez. 5^ Ord. 25.10.2017 n. 25257; in termini analoghi Cass. Sez. 5^ 14.6.2013 n. 14941).
Quanto alle dichiarazioni rese da terzi alla Guardia di Finanza nell’ambito di un’indagine penale è assolutamente pacifico l’orientamento in base al quale nel processo tributario è pienamente utilizzabile tale tipo di dichiarazioni ove rese alla Guardia di Finanza o agli agenti verificatori dell’Agenzia delle Entrate anche se inserite in forma sintetica nel p.v.c. che sia stato recepito nell’avviso di accertamento notificato alla parte assumendo essi il valore indiziario di un mere riformazioni liberamente valutabili acquisite nell’ambito di indagini amministrative e costituendo quindi per il giudice un elemento di convincimento, ancorchè la loro assunzione non sia avvenuta o verbalizzata in contraddittorio con il contribuente non richiesto da alcuna norma (in termini Cass. Sez. 5^ Civ. 5.12.2012 n. 21812; v. anche in senso analogo Cass. Sez. 5^ 8.4.2015 n. 6946; Cass. Sez. 5^ Ord. 13.7.2017 n. 17260 in cui si ribadisce la non necessità della instaurazione di un contraddittorio nei confronti del soggetto destinatario di un avviso di rettifica in materia di IVA e in particolare di fatture emesse per operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti).
La relatività del cosiddetto principio del “doppio binario” trova un preciso elemento di riscontro nella elaborazione giurisprudenziale formatasi in materia circa l’utilizzabilità nel processo tributario di atti del procedimento penale. In linea generale si osserva che il principio della separazione tra i due processi non significa divieto o impossibilità che i dati raccolti in uno di essi non siano poi utilizzabili nell’altro. Ma va aggiunto che laddove dovessero ritenersi trasponibili tout court i criteri e gli standard probatori di un sistema processuale nell’altro, si correrebbe il rischio di ritornare alla pregiudiziale tributaria in realtà bandita dal legislatore dopo le riforme del 1982 e soprattutto del 2000. Numerosi i limiti che l’utilizzazione di prove acquisite in un processo possa avvenire nell’altro: certamente non possono essere utilizzate in ambito penale le presunzioni tributarie (in qualsiasi forma possano caratterizzarsi), come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità . Del resto, la sentenza in commento ha confermato tale orientamento dei Giudici di legittimità.
In particolare, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa”. Ciò, vale anche con riferimento alla determinazione della cd. “soglia di punibilità” in relazione al reato di cui all’art. 5 del D. Lgs. 74/2000, sulla base di presunzioni,
Tuttavia, se tali limitazioni valgono con riferimento alla sussistenza del reato ed alla sua punibilità in concreto, atteggiamento diverso ha assunto la giurisprudenza di legittimità in tema di misure cautelari reali quali il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
In tali casi le presunzioni tributarie ritenute dalla giurisprudenza più avveduta di legittimità quali indizi liberamente valutabili dal giudice penale ed utilizzabili ai fini della decisione in presenza di altri elementi di riscontro, possono costituire la base fondante per legittimare il provvedimento cautelare i cui presupposti sono il fumus boni iuris e il periculum in mora.
La giurisprudenza di legittimità, nel ribadire la regola della non utilizzabilità quale elemento di prova delle presunzioni legali previste dalle norme tributarie ha tuttavia avuto modo di evidenziare, in tema di adozione di misure cautelari reali, il valore indiziario delle predette presunzioni ovvero dei dati di fatto che le sottendono sicché ben può essere fondata su di esse l’applicazione di una misura cautelare reale: ciò in quanto in tema di misure cautelari reali, ai fini della loro applicazione non occorre un compendio indiziario in termini di gravità come richiesto dall’art. 273 cod. proc. pen. per l’applicazione di misure cautelari personali, essendo sufficiente l’esistenza del fumus del reato secondo la prospettazione della pubblica accusa sulla base della indicazione di dati fattuali che si configurino coerenti con l’ipotesi criminosa.
-La decisione disposta dalla Corte di Cassazione con la Sentenza N°36915 depositata il 22/12/2020
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36915, depositata il 22 dicembre 2020, ha rigettato il ricorso dell’imputato. Dopo una lunga premessa in cui veniva descritta la dinamica tipica della frode carosello, i giudici ribadivano che in relazione alla fattispecie delittuosa contestata era necessario il dolo specifico, che il reato, qualificabile di pericolo presunto e di mera condotta, si consumava al momento della presentazione della dichiarazione e che lo stesso e che il delitto si configura a prescindere dall’effettività dell’evasione.
Veniva poi analizzata, in generale, la questione della ripartizione dell’onere della prova, specificandosi che è l’Agenzia delle Entrate che deve provare gli elementi di fatto della frode, la natura di cartiera del cedente (assenza di struttura, di operatività, costante omesso pagamento di imposte) e la connivenza del cessionario: il tutto però con presunzioni semplici, purchè dotate di gravità, precisione e concordanza. Ove ciò accada è il contribuente che deve fornire la prova contraria, sia sull’esistenza della prestazione che sulla propria buona fede. Infatti, come sancito dalla giurisprudenza sia di legittimità che comunitaria, l’ufficio deve dimostrare che il contribuente sapeva o avrebbe potuto sapere, usando un comportamento diligente, dell’esistenza della frode: in sintesi è necessario che sussista quantomeno la colpa cosciente in capo all’acquirente.
Ciò posto, la Suprema Corte di Cassazione adita in sede di legittimità precisava che nel processo penale le presunzioni tributarie non possono costituire fonte di prova in ordine alla commissione dell’illecito, pur potendo avere esse valore meramente indiziario.
Infatti, in sede penale non si mira ad accertare il quantum evaso, ma l’attribuibilità o meno all’imputato di una condotta illecita oltre ogni ragionevole dubbio. Pertanto, gli elementi raccolti dall’Amministrazione finanziaria hanno valore di meri indizi per il giudice penale il quale dovrà autonomamente valutarli unitamente al restante materiale probatorio.
Con riferimento alla casistica posta al vaglio degli Ermellini, i giudici di merito si erano attenuti ai suindicati principi, atteso che avevano attentamente valutato gli elementi emersi nel corso del giudizio; in particolare:
–a) l’imputato non aveva prodotto alcuna documentazione fotografica sull’evento avvenuto di cui alla fattura per il catering ritenuta inesistente;
-b) il fornitore non aveva alcun dipendente, non presentava dichiarazioni dei redditi, non aveva scritture contabili, era evasore totale ed aveva sede in altra regione rispetto alla Srl;
-c) le altre prestazioni che sarebbero state fornite erano indicate in modo del tutto generico;
-d) il costo della fattura sembrava sproporzionato per i servizi in essa indicati.
Sulla base di tali elementi i giudici avevano fondato il proprio convincimento in ordine alla responsabilità penale dell’imputato. Da ultimo, era corretta la valutazione della Corte di Appello in merito al fatto che se anche fosse stato dimostrato, come sostenuto dalla difesa dell’imputato, che la fattura fosse stata solo soggettivamente inesistente, il reato contestato si sarebbe ugualmente configurato, rientrando comunque nella fattispecie criminosa di cui all’art. 2 D.lgs. 74/2000, che qualifica come “inesistenti” anche i documenti emessi per attività svolte da soggetti diversi da quelli emittenti la fattura contestata.
-Conclusioni:
Alla luce di quanto sopra, possono dirsi condivisibili le considerazioni esposte dai Giudici di Palazzaccio che nella vicenda processuale in esame hanno confermato, come già segnalato, non solo il principio generale dell’assoluta autonomia del giudizio penale rispetto a quello tributario; ma, ha mantenuto distinta anche la valenza probatoria degli elementi raccolti in fase istruttoria in seno al giudizio tributario e, comunque, riconducibili alla condotta del contribuente. In ogni caso, gli elementi raccolti dal collegio tributario non possono assumere rango di prova nel giudizio penale; tutt’al più, possono essere utilizzati a discrezione del giudice penale quale meri elementi indiziari ed in quanto tali, insufficienti a giustificare la condotta penalmente rilevante assunta dall’imputato, allorquando, esistono a suo carico circostanze ed elementi che qualificano in modo chiaro il comportamento fraudolento, doloso o colposo dell’imputato stesso.